lunedì 2 ottobre 2017

“Il mare è ammalato, ma possiamo salvarlo” Davide Carrera, primatista di apnea, testimone per One Ocean Forum. “Ho visto una spiaggia delle Bahamas coperta di plastica”

«A certe profondità, oltre i -40 metri, il blu si trasforma in buio. Guardi in te stesso, nelle tue paure. Ma, immergendoti, vedi anche il mare che è cambiato».  

Davide Carrera è sceso nel profondo del Mediterraneo, degli Oceani ed è stato chiamato a testimoniare che cosa ha visto da One Ocean, il forum per la salvaguardia dell’ambiente marino in programma a Milano martedì e mercoledì prossimi. Torinese, ha conosciuto il mare in Liguria, ad Andora; ha fatto lo skipper, viaggiando con un trimarano di 9 metri e ha cominciato ad immergersi (nel frattempo, si è stabilito a Olbia). Suo il primato mondiale di immersione in apnea in assetto costante, con monopinna, a meno 114 metri, conquistato nel maggio scorso nel Dean’s blue hole, una dolina marina profonda oltre 200 metri nelle Bahamas, durante il “Vertical blue”, una sorta di Olimpiade annuale degli apneisti. 



Che cosa si vede, scendendo nel Blue hole?  
«Fino a 40 metri c’è luce, poi diventa abbastanza scuro. Sotto i 60 metri è notte fonda. Sembra di infilarsi dentro la terra, oltre che nel mare. In un buco nero, nel nulla, nella pupilla del globo. È un luogo molto suggestivo, un po’ mistico. Quasi claustrofobico. In Sardegna, invece, fino a 100 metri filtra la luce e intorno a te senti lo spazio, il mare aperto».  Lei è anche un osservatore privilegiato dello stato di salute del blu, sopra e sotto. Come vede il mare?  
«Sicuramente è peggiorato. Così come, nel frattempo, sono convinto che sia aumentata invece la sensibilità, l’interessamento alla sua salute. Penso che sia in atto una inversione di marcia, un cambiamento di mentalità. Il mare ammalato è conseguenza dell’insensibilità, degli scempi degli anni passati». 

Ha percezione del cambiamento?  
«Il mare della Sardegna, in cui mi alleno, pur se ancora fantastico, non è più quello di quando ero bambino. Banchi di microplastiche, reti di nylon abbandonate da una pesca poco gentile che si prende tutto, bottiglie di plastica...». 

La plastica galleggia o è semiaffiorante solitamente, no?  
«Sì, ma io ne ho vista anche in profondità. Oppure, a terra. Ho ancora davanti agli occhi una spiaggia delle Bahamas completamente ricoperta di pezzi di plastica, che gli alisei hanno trascinato lì dalle onde dell’Atlantico. E poi, i relitti...». 

I relitti?  
«Alcuni sono affascinanti, altri nascondono veleni, scorie chimiche, affondati spesso dall’ignoranza, da chi intende il mare come una discarica». 

Che si può fare per salvare il mare?  
«Proseguire nell’opera di sensibilizzazione, nella presa di coscienza collettiva. Come singoli, come movimenti di persone, ma anche come grandi gruppi industriali. Penso che il mare, la natura siano forti e che non sia tutto perduto, che si possa davvero fare qualcosa per salvare il blu. Io sono ottimista». 

Lei pensa che anche ciascuno di noi, quale singola persona, possa contribuire? 
«Sì. Io, ad esempio, nel mio piccolo cerco di non usare la plastica. Bevo acqua in bottiglie di vetro, sto attento al packaging degli alimenti. Richiede più impegno, anche maggiori costi, ma va a beneficio nostro e dei nostri figli». 
  http://www.lastampa.it/2017/10/01/societa/il-mare-ammalato-ma-possiamo-salvarlo-ovKMLSshRp8mq1C9CO4aHM/pagina.html?utm_source=dlvr.it&utm_medium=twitter

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