sabato 28 giugno 2014

inquinamento radioattivo centrale nucleare Chernobyl I CINGHIALI "SENTINELLA"

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Alcuni giorni fa l'Istituto Zooprofilattico sperimentale di Piemonte, Liguria e Valle d'Aosta ha reso noto le risultanze di un anno d'analisi dopo il riscontro, nel marzo 2013, di alcuni cinghiali radioattivi nella Valsesia. Da allora l'Istituto diretto da Maria Caramelli ha continuato a monitorare la situazione e analizzato 1.441 campioni: il numero di "cinghiali radioattivi" è salito a 166. Provengono tutti dalla provincia del Verbano-Cusio-Ossola, nel nord del Piemonte, e in particolare dalla Valsesia.
Per Mondo in cammino che da anni si occupa delle conseguenze delle ricadute di Chernobyl, la notizia non sorprende; non é che la conferma della costante denuncia della presenza del fallout che coinvolge non solo il Piemonte, non solo una valle, ma tutto l'arco alpino. Al tempo delle Olimpiadi invernali in Piemonte (2006), sostenevamo che le valli olimpiche erano fra le più contaminate dal fallout di Chernobyl e ci davano dei pazzi. La nostra consapevolezza non era solo teorica, ma confortata dal prezioso studio fatto da André Paris con cui ci eravamo già incontrati e che, con il sostegno della CRIIRAD, aveva pubblicato il libro: "Contaminations radioactives: atlas France et Europe".  Il laboratorio CRIIRAD, accreditato presso il ministero della Salute francese per le rilevazioni della radioattività ambientale e della catena alimentare, aveva proceduto ad eseguire delle comparazioni al fine di validare” la metodologia del terreno” messa in atto da André Paris per la realizzazione dell’ ”Atlante dei livelli residuali di cesio137 nei suoli, 1999-2001”. Questo studio ha permesso di dimostrare che tutto l’arco alpino è interessato dalla presenza di zone di accumulo di contaminazione, in cui la concentrazione in cesio137 in certe porzioni di terreno è tale da poterli qualificare alla stregua di ”scorie radioattive”. La analisi di laboratorio hanno anche dimostrato la presenza di accumulo di plutonio. Le Alpi che erano considerate un ambiente preservato dalla contaminazione, si sono, al contrario, rivelate tra i posti più colpiti dal fallout di Chernobyl.
Ora, per evitare minimizzazioni o obiezioni improprie sui dati presentati dall' Istituto Zooprofilattico sperimentale di Piemonte, Liguria e Valle d'Aosta, bisognerebbe concentrarsi più che sui cinghiali, sulle zone che - verificato il grado di stanzialità del branco - li ospitano. A queste zone andrebbero sovrapposte o abbinate quelle studiate da André Paris e riproposte da Mondo in cammino in questo link: [VEDI]
Nell’ intiero arco alpino - come riporta l'Atlante - esistono in altezza (in generale oltre i 1.500 metri) settori dove si è avuta una fortissima riconcentrazione locale di cesio depositato inizialmente su una grande superficie. Su questi punti di accumulo l’irraggiamento raggiunto dal cesio 137 condurrebbe ad una esposizione esterna non trascurabile. Bivaccare due settimane sui punti più attivi potrebbe condurre a dosi inaccettabili, vale a dire superiori a 1.000 microsieverts/anno. Il laboratorio della CRIIRAD aveva rilevato nella regione di Restefond, nel Mercantour, ai confini con le Alpi marittime italiane, su un punto d’accumulo (255.000 Bq/kg in cesio137), una potenzialità di dose al contatto con il suolo di 8,4 microsieverts per ora (dedotta la radioattività naturale). Un turista che avesse piazzato il suo sacco a pelo su questo posto avrebbe ricevuto, in una notte, la dose di 67 microsieverts. Se si immagina un campeggio della durata di 15 giorni, l’esposizione totale potrebbe sorpassare i 1.000 microsieverts. Questo valore è considerato, dai regolamenti europei, il limite massimale per l’esposizione generata dall’insieme delle attività industriali.
E' chiaro che la decontaminazione dell’ intiero Arco Alpino è impossibile, ma, come Mondo in cammino - partendo da queste analisi ormai inconfutabili dell'Istituto di Zooprofilassi - sosteniamo imprescindibile, senza fare terrorismo ideologico o psicologico, la raccomandazione di un controllo sistematico dei luoghi più frequentati dal pubblico (aree di picnic, campeggi, ecc.) e l'adozione di una metodologia simile a quella sviluppata da André Paris sulla “contaminazione uniformemente ripartita”, cioè suoli appositamente selezionati in grado di garantire contemporaneamente una buona conservazione del cesio (terreni boschivi e prati naturali ad esclusioni dei pascoli e dei terreni coltivati) e l’assenza di fenomeni di accumulo (come ai piedi dei faggi, il fondo delle doline, la via di passaggio preferenziale delle acque di scioglimento della neve in montagna, ecc).
La raccomandazione diventa una vera e propria esortazione ad adottare un sistema verificabile di controllo in quanto le analisi dell'Istituto Zooprofilattico denunciano e confermano paradossalmente, per gli anni precedenti, una carenza di controlli (i cinghiali "radioattivi" non sono una razza a se stante comparsa improvvisamente nel marzo 2013!!!).
Sapendo inoltre che la contaminazione avviene per via alimentare, un maggiore controllo, oltre ad intervenire direttamente sul consumo della carne di cinghiale, potrebbe creare le condizioni per una migliore mappatura generale di allerta per la raccolta dei funghi e dei prodotti di sottobosco (mirtlli, lamponi, more) e per l'indicazione di aree di pascolo presumibilmente meno contaminate.
Considerata la durata degli effetti del fallout radioattivo, non é mai troppo tardi (28 anni sono solo una tappa!).
PScrediamo nella correttezza dei controlli effettuati dall' Istituto Zooprofillatico, ma sarebbe importante conoscere il rateo fra Cesio 137 e Cesio 134. Il Cesio 134 è la "matrice" per sapere se il Cesio 137 riscontrato è attribuile tutto o solo in parte al fallout di Chernobyl. Come Mondo in cammino crediamo che non vada ignorato il "contributo" che potrebbe essere derivato dal fallout di Rovello Porro e da noi denunciato, assieme all'AIPRI, lo scorso anno. Un fallout preoccupante, ma minimizzato o volutamente ignorato con omertà, censure e depistamenti ad hoc [VEDI]. O non vorremmo che, senza misurazione del rateo o senza sua divulgazione, non si cercasse comunque di nascondere qualche altro fallout più recente, qualche fonte orfana, qualche smaltimento illegale o non idoneo. Vogliamo e dobbiamo pensare che non sia così e che i dati resi pubblici facciano riferimento a Chernobyl con scienza e coscienza, senza accondiscendere, invece, a quel fallout del 1986 che risulterebbe, sicuramente, più "rassicurante" rispetto ad ipotetici fallout o contaminazioni più recenti. Di sicuro, e in ogni caso, i cinghiali restano "sentinelle" di qualcosa che va tenuto - indipendentemente dalla fonte - in debita considerazione a salvaguardia della salute pubblica e dell'ambiente. 


Massimo Bonfatti
presidente di Mondo in cammino



L'ARTICOLO
Fonte: torino.repubblica.it

La denuncia dell'Istituto Zooprofilattico di Torino: sono già 166, dopo l'inizio dei controlli un anno fa,  gli animali contaminati dal cesio 137, diretta conseguenza dell'incidente nucleare del 1986 e della nube che investì anche il Nord Italia

Allarme cinghiali radioattivi in Piemonte, è l'onda lunga del disastro di Cernobyl

E' l'onda lunga del disastro di Cernobyl, quasi trent'anni dopo. A lanciare l'allarme è l'Istituto Zooprofilattico sperimentale di Piemonte, Liguria e Valle d'Aosta, che da più di un anno analizza i cinghiali a caccia delle tracce di cesio 137: un'attività iniziata nel marzo del 2013, quando in alcuni di questi ungulati selvatici venenrò riscontrati tassi di radioattività abnormi, diretta conseguenza dell'incidente nucleare avvenuto in Ucraina, allora Unione Sovietica, del 26 aprile 1986 che aveva provocato una nube radioattiva estesasi, con piogge, su tutta Europa. Un anno fa gli animali trovati contaminati erano stati 27. Da allora l'Istituto diretto da Maria Caramelli ha continuato a monitorare la situazione e analizzato 1.441 campioni: il numero di "cinghiali radioattivi" è salito a 166. Provengono tutti dalla provincia del Verbano-Cusio-Ossola, nel nord del Piemonte, e in particolare dalla Valsesia.

L'occasione per fare il punto della situazione è stata il convegno organizzato dall'Istituto Zooprofilattico al Sermig di Torino, presenti ricercatori, docenti universitari, rappresentanti delle organizzazioni agricole e venatorie e più di 200 veterinari di tutto il Piemonte e da altre regioni italiane. "L' Unione Europea - spiega Maria Caramelli - ha stabilito che i livelli massimi di radioattività nei selvatici non devono superare i 600 bequerel per chilogrammo di peso. Nei nostri laboratori è emersa una concentrazione di Cesio 137 significativamente superiore in oltre il 10% dei campioni esaminati". La nube tossica, spiega la Caramelli, "transitò sulle regioni del Nord del nostro Paese. In Valsesia le ricadute radioattive furono particolarmente intense per la pioggia che cadde in quel periodo. Carcasse di selvatici provenienti da altre aree del Piemonte non hanno rivelato alcuna contaminazione".

Nel corso del convegno è stato sottolineato come, nonostante il calo dei cacciatori, cresca la selvaggina cacciata, che può essere portatrice di rischi per la salute dei consumatori, sia per la presenza di batteri e virus dannosi per l' uomo (influenza aviaria, sars ed ebola sono state le emergenze più eclatanti degli ultimi anni) sia di metalli pesanti e pesticidi di cui potrebbe essere contaminato l'ambiente dove vivono questi animali. E', dunque, importante - spiega l'Istituto
Zooprofilattico in una nota - sottoporre i capi uccisi a controlli. La Regione Piemonte si è dotata di un Piano di monitoraggio. Ma dal convegno è emerso che ancora oggi solo il 50 per cento del carniere di un cacciatore viene sottoposto ad analisi prima di essere consumato.

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