mercoledì 13 giugno 2012

acqua pubblica un anno senza referendum, la linea è vendere, esempio Napoli

ACQUA PUBBLICA Un anno senza referendum: la linea è vendere ANDREA PALLADINO 12.06.2012 http://www.ilmanifesto.it/attualita/notizie/mricN/7752/ Napoli è l'unica città che ha seguito l'esito del voto. Il mese prossimo parte la nuova società. Appena sette giorni dopo il voto, Lavitola spiega al telefono come disinnescarlo. Non c'è una foto storica per ricordare il 12 luglio dello scorso anno. Nessun leader di partito, nessuna piazza monocolore, nessuna diretta con sorrisi da vincitori. Le uniche immagini rimaste incise sono le file domenicali - nonostante il sole e l'aria estiva - davanti ai seggi. Silenziose, popolari, interminabili. In una parola, belle. Ventisette milioni di persone, intere famiglie, volti che non ritrovi spesso davanti alle urne quando si tratta di scegliere una lista, una coalizione. Era un anno fa, qualche mese dopo Fukushima, quando Silvio Berlusconi sembrava eterno, un incubo difficile da allontanare. Oggi, dodici mesi dopo, è chiaro come mai che quel referendum su acqua, nucleare e legittimo impedimento è il punto di svolta non ancora risolto della politica italiana. Non era rabbia, non c'era la volontà nascosta di volere semplicemente cambiare governo passando attraverso il voto referendario. Il Sì all'acqua pubblica - vero tema trainante, il plus che ha reso possibile il quorum - è un comun denominatore che a pochi mesi dalle prossime elezioni politiche non ha ancora trovato una casa comune. Non appartiene al grillismo, anche se nei territori spesso il movimento 5 stelle è parte dei comitati; non coincide con la sinistra, soprattutto quella del Pd, che sui beni comuni e sulla lotta alle privatizzazioni non mostra di avere idee molto chiare; e non è di certo patrimonio della destra, anche se una buona parte dell'elettorato del Pdl il voto per l'acqua pubblica l'ha dato senza pensarci due volte, preannunciando, di fatto, la crisi del berlusconismo. Se c'è un padre - o meglio, una madre - della battaglia per i beni comuni va cercato molto più lontano, non in quell'immediatezza politica che oggi stordisce. È l'onda lunga di Genova, del movimentismo diffuso e senza centri di gravità invadente che ha permeato l'Italia per dieci anni. E come nel caso del G8 ha avuto una reazione crudele, anche se silenziosa. Nelle mani di Valter Il voto del 12 e 13 giugno dello scorso anno ha letteralmente terrorizzato l'establishment politico, economico ed affaristico. Dopo dodici mesi non solo la volontà popolare è stata violentata dai perdenti prima e dai tecnici "salvatori" poi. Nulla doveva cambiare, mentre i ventisette milioni di voti dovevano semplicemente finire soffocati. Appena sette giorni dopo il referendum è Valter Lavitola ad occuparsi di cosa fare per evitare la catastrofe - per loro - della ripubblicizzazione dell'acqua chiesta con chiarezza dal voto. Intercettato dalla procura di Napoli l'ex direttore dell'Avanti si faceva spiegare al telefono dal professore di ingegneria idraulica della terza di università di Roma Roberto Guercio la migliore strategia per archiviare subito quel referendum. Il quesito che ha eliminato il profitto sull'acqua - chiamato prosaicamente "remunerazione del capitale investito" - era il vero totem che andava difeso con le unghie e con i denti: «Non è detto che tu e i francesi dovete prendervi i soldi da Acea - spiegava Guercio - dalla remunerazione del capitale, il capitale non si paga un cazzo, ma trasformiamo l'attuale concessione di gestione in una gestione di concessione e costruzione». Se il profitto è uscito dalla porta principale, l'importante era farlo rientrare da una delle finestre rimaste aperte. Basta cambiare qualche carta in tavola, rivedendo il contratto di concessione, utilizzando i politici giusti: «Dato che lei (Renata Polverini, ndr) comunque pensa di rifare un partito con Alemanno - si legge nelle intercettazioni - e comunque con Caltagirone si vede una volta al giorno, questa operazione sul Lazio la può fare solo lui». Il parere di Napolitano junior Il 24 giugno del 2011 - undici giorni dopo il referendum e prima della proclamazione ufficiale del risultato da parte del presidente della Repubblica - il professor Giulio Napolitano, figlio del più noto Giorgio, invia alla romana Acea un parere «sugli effetti dell'abrogazione referendaria della disciplina dei servizi pubblici». Qui si annuncia la strategia che i gestori dei servizi pubblici locali in tutta Italia adotteranno per difendere quel profitto abrogato dal referendum: non sono utili, spiega Napolitano, ma un «costo finanziario della fornitura del servizio». Una tesi subito accolta perfino dalla regione Puglia che pure aveva apertamente sostenuto la campagna referendaria, annunciando il giorno dopo il voto la ripubblicizzazione degli acquedotti (operazione poi terminata in un nulla di fatto, dopo il ricorso del governo). Nella gestione dei beni comuni la forma è sempre sostanza. Mantenere la Società per azioni - anche se con capitale interamente pubblico - vuol dire puntare sempre e comunque al profitto. Qui sta l'altro grande tradimento del referendum. Se escludiamo Napoli - tra circa un mese verrà firmato l'atto di costituzione del nuovo soggetto gestore senza scopo di lucro - in un anno nessuno ha attuato l'indicazione politica chiara del referendum. Il governo della Puglia aveva tentato di sciogliere la Spa degli acquedotti pugliesi, ma al primo altolà del governo Nichi Vendola si è tirato indietro. In maniera un po' contraddittoria in realtà: da una parte facendo ricorso contro le privatizzazioni forzate volute dai governi Berlusconi e Monti - accogliendo l'appello de il manifesto - dall'altra annunciando la cessione ai privati dei servizi pubblici locali ancor prima della discussione del merito davanti alla Consulta. Ancora più scomposta è stata la strategia del Pd, che pure aveva all'ultimo momento dato indicazioni per votare Sì. Paradossale e assolutamente strumentale appare, ad esempio, la battaglia romana contro la cessione di parte delle quote di Acea ai privati: i democratici, che guidano la battaglia anti Alemanno in consiglio comunale, evitano di parlare delle società per azioni miste pubblico-private - ampiamente sperimentate in Toscana e nel Lazio - ovvero del cavallo di battaglia preferito del partito di Bersani. Essenziale è stato poi il loro voto per far passare le privatizzazioni dure del governo Monti, nascoste neanche troppo dietro lo slogan delle liberalizzazioni. In fondo il migliorista Napolitano - questa volta padre - non ha avuto nessun dubbio nel firmare quelle norme pensate per stroncare sul nascere la vera primavera italiana. Quella cresciuta sui beni comuni.

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