domenica 21 agosto 2011

green economy la risposta alla crisi del lavoro

Massimo Serafini
PROPOSTE. Lavoratori, disoccupati e giovani vogliono essere protagonisti di una riconversione produttiva che valorizzi le loro capacità tecniche e culturali. Per una diversa qualità del consumo.

In altre parole si diffonde fra i risparmiatori la convinzione che perseguire, come i decisori politici stanno facendo, un rilancio di un assetto economico del tipo che abbiamo conosciuto in occidente e che la globalizzazione ha esteso a tutto il mondo, sia destinato inevitabilmente a produrre sempre meno benessere, disoccupazione di massa, impoverimento della vita sociale e una distruzione sistematica dell’ambiente. Perché, mi chiedo, non dovrebbe serpeggiare scoraggiamento e fuga verso i beni rifugio se dalla testa di chi governa, più in generale dalle classi dirigenti (non solo in Italia) l’unica idea che esce per rilanciare l’agognata crescita del Pil è il solito programma di opere pubbliche? Mancano idee e progetti su come produrre nuova ricchezza e uno sviluppo duraturo. Molto schematicamente mi chiedo perché dovrei prestare i miei risparmi ad Enel ed Eni sapendo che verrebbero utilizzati per incatenare il Paese alle energie fossili e non rinnovabili, carbone compreso, cioè ad un modello energetico senza futuro?

Perché investire sulle azioni della Fiat se farlo serve ad aiutarla a costruire i Suv a Mirafiori e non a finanziare ricerca e messa in produzione di nuovi sistemi e prodotti per la mobilità? Ed ancora perché sostenere un sistema bancario, responsabile della crisi e sempre più lontano dall’economia reale a cercare facili guadagni? Come non nutrire sfiducia in classi dirigenti che per inseguire una crescita, da tempo senza benessere, preferiscono togliere risorse a scuola e ricerca per darle al ciclo del cemento e al sostegno di merci e prodotti obsoleti? Non è una peculiarità solo italiana: la mancanza di idee e coraggio politico è una caratteristica diffusa in tutte le classi dirigenti del mondo. La crisi della politica nasce da qui, dalla sua incapacità a prendere atto del fallimento irreversibile del vecchio modello di sviluppo e di conseguenza dal suo rifiuto di dare soluzione ai problemi che la crisi pone progettando una riconversione ecologica dell’economia e del modello di consumo che essa alimenta.

Non lo fa Obama, che pur lo aveva promesso, così come non la fanno i Paesi guida della Ue e nemmeno quelli emergenti come Cina ed India che pensano di potere uscire dalla povertà copiando il modello di produzione e di consumo occidentale. In Italia la mancanza di progetti è forse più grave che in altri posti, se solo si pensa che chi governa ha partorito, come idea forte per rilanciare la crescita del Paese, l’ennesima “ricostruzione” dell’autostrada Salerno Reggio Calabria. Un disastro, aggravato dalla ritrosia delle opposizioni a unirsi, sebbene i referendum, su un programma di riconversione ecologica del Paese. Non mi pare che gli ambientalisti, ovunque essi siano collocati, abbiano registrato una presenza significativa volta a vincere questa ritrosia: qualche convegno sulla green economy e niente più. Eppure dalla società sono venuti molti segnali di disponibilità della popolazione a dare il proprio consenso a scelte di sostenibilità ambientale.

Non è questo ciò che emerge dalla straordinaria partecipazione ai referendum su nucleare e acqua? Certo non bastano né il voto referendario, né la diffusa mobilitazione presente nel territorio e nemmeno l’espandersi dei gruppi solidali di acquisto per conquistare il Paese ad una trasformazione ecologica del modo di produrre e consumare. Non si può alimentare l’illusione che, unendo ai comitati di lotta presenti sul territorio contro le grandi opere (ma anche contro l’eolico) i gruppi solidali di acquisto, quanti si ribellano alla distruzione della scuola pubblica o all’umiliazione del lavoro, si sarebbero già create le condizioni per imporre la trasformazione ecologica dell’economia. Ma il giusto richiamo a tenere conto dei reali rapporti di forza non può giustificare il fatto che poco si sta facendo per intercettare la straordinaria disponibilità al cambiamento emersa nella campagna referendaria sui beni comuni consolidandola in un programma che, da un lato faccia del rifiuto del nucleare la leva per una svolta energetica rinnovabile e dall’altro dimostri che la riconquistata gestione pubblica dell’acqua, saprà superare la prova, che si voleva affidare ai privati, della pianificazione del ciclo integrale della risorsa idrica e del governo dei diversi usi in conflitto fra loro.

Ma il nodo di fondo è come allargare i protagonisti sociali di un progetto di riconversione ecologica dell’economia. Come mettere in relazione queste lotte e i soggetti sociali che le animano con quelle delle lavoratrici e lavoratori dei settori industriali in crisi. Non basta la disponibilità della Fiom e le lotte di resistenza che sta realizzando. Per recuperare un rapporto credibile fra occupati, cassaintegrati, disoccupati, giovani precari serve un progetto capace di rompere il circolo vizioso dell’assistenza e di offrire la prospettiva di una diversa qualità della vita e del lavoro stesso. Come si potrebbe costruire un comune agire tra operai, tecnici e settori vecchi e nuovi del lavoro intellettuale se non si è in grado di coinvolgerli su una proposta che li renda protagonisti di una riconversione produttiva che valorizzi le loro capacità tecniche e culturali e offra contemporaneamente una diversa qualità del consumo?

Né è pensabile evitare la chiusura corporativa e la rassegnazione delle lavoratrici e lavoratori allo scambio fra occupazione e diritti, se non sapremo offrire loro, la Fiom in primo luogo, un progetto credibile di riconversione verso nuovi prodotti e tecnologie. La difesa dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici è possibile solo caricando il conflitto di proposte capaci di misurarsi con l’innovazione di prodotto e processo. Questo è il laboratorio sociale che gli ambientalisti, ovunque collocati, dovrebbero cercare di aprire con i ventisette milioni di italiane ed italiani che hanno saputo trascinare e coinvolgere nei referendum e che invece ancora non facciamo. Sarebbe decisivo riuscire a svilupparlo dentro le lotte che inevitabilmente l’iniqua e perdente manovra economica del governo alimenterà in autunno per fornire alle stesse respiro e proposta all’altezza della crisi.

A me pare che il peso del progetto ambientalista nel futuro programma con cui la sinistra sfiderà le destre dipenda dalla apertura di questo laboratorio sociale e non da una inutile ed estenuante trattativa di vertice su programmi e composizione delle liste. Punto di riferimento e indicatore del reale peso del progetto ambientalista non può dunque che essere il popolo dei referendum su acqua e nucleare. Una verifica tutta da costruire, ma ci sono le condizioni per recuperare i ritardi accumulati se solo si sposta il pensiero e l’azione dalla formazione delle liste e degli schieramenti alla società e alle persone in carne ed ossa. Questo io credo dovrebbe essere il tratto distintivo di una presenza ambientalista nella crisi.
http://www.terranews.it/news/2011/08/green-economy-l%E2%80%99alternativa-al-circolo-vizioso-dell%E2%80%99assistenza

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